Il 2019 si sta concludendo come un altro anno nel quale i prezzi del petrolio sono rimasti considerevolmente bassi, senza mai arrivare a superare i 60$ al barile che per molti economisti rappresenta il primo grande ostacolo verso un rilancio generale del greggio.
Nel frattempo i consumatori si rallegrano di questo, specie in Italia e negli altri Paesi che importano più petrolio di quanto riescano a produrne. E non finisce qui: il 2020 potrebbe vedere prezzi ancora più bassi, a meno che il cartello OPEC+ (fatto dai principali produttori del Medio Oriente e la Russia) non riesca a trovare un accordo.
Di fronte ad una crescente produzione di petrolio negli Stati Uniti, dove lo shale oil ha compiuto quasi un miracolo economico, c’è poco altro che si possa fare. Specie perché i produttori americani hanno già annunciato un aumento della produzione, a prescindere dall’andamento dei prezzi internazionali.
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Freno alla crescita della domanda
Ci aspettavamo che dalle nazioni del Far East, con la loro grande crescita anno su anno, arrivasse una domanda di automobili e carburante ben superiore a quella realmente rilevata. Questo vale per tutti, in tutto il mondo: nessuno aveva predetto un anno così limitato sul fronte degli ordinativi di automobili a diesel o benzina, specialmente in Cina.
I colossi orientali crescono meno del previsto, soprattutto per via delle tensioni commerciali tra Cina e USA, trascinando con sé il prezzo del petrolio. Esattamente come desiderato dal Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che al momento sembra del tutto intenzionato a proseguire in questo braccio di ferro con Pechino.
Oltre a rallentare la crescita dell’economia cinese, le nuove tariffe doganali imposte da Trump diminuiscono la domanda per il carburante delle navi e degli aerei che trasportano merci attraverso l’oceano Pacifico. La rotta tra Hong Kong e i porti e aeroporti statunitensi, d’altronde, è la più trafficata al mondo: un calo nella domanda dei trasporti qui ha ripercussioni su tutto il quadro economico.
Nella speranza di trovare un accordo per limitare i danni, intanto, OPEC+ continua ad organizzare vertici che dovrebbero servire a dare direzione alle nuove politiche del cartello. Puntualmente, però, si continua a non trovare un accordo tra le nazioni rappresentate e a rimanere in una situazione di totale incertezza.
Possibile target a 40$
Se il cartello che unisce Medio Oriente e Russia non dovesse riuscire a trovare un accordo, il prossimo obiettivo per il prezzo del barile potrebbero essere i 40 dollari.
Al livello attuale di produzione, e considerando anche l’incremento della produzione americana, si può stimare che il prossimo anno saranno estratti 800.000 barili in più al giorno rispetto a quelli realmente richiesti dal mercato.
Questo trascinerebbe decisamente verso il basso i prezzi, a meno che l’OPEC non riesca a fare qualcosa per arginare il fenomeno. Nel frattempo, dobbiamo ricordare anche che dal prossimo gennaio l’Ecuador non farà più parte dell’OPEC, e non starà più ai limiti di produzione imposti dall’organizzazione. Con ogni probabilità , l’intento è quello di lasciare i vincoli di produzione in ottica di una maggiore estrazione dai giacimenti nazionali.
Rimangono altre incognite importanti, ma sulle quali è comunque possibile fare previsioni. La più grande è il Venezuela, la nazione con i giacimenti più ricchi e anche più mal gestiti al mondo. Visto l’enorme debito pubblico nazionale e la crescente impopolarità di Maduro, qui possiamo soltanto aspettarci che si continuino ad avere dei disperati aumenti dell’estrazione.
L’accordo che non arriva
Nel cartello OPEC+ sono rappresentate 24 nazioni, con l’Arabia Saudita che rappresenta il leader de facto del gruppo. Con un costo di produzione di appena 10$ al barile, infatti, la compagnia nazionale saudita Aramco è la più competitiva al mondo nell’estrazione del petrolio.
Più o meno tutte le nazioni, nell’ultimo meeting di Vienna, si sono dimostrate a favore di tagli alla produzione per sostenere il livello di prezzi. Preoccupati non solo dagli USA, ma dall’aumento di produzione anche in Canada, Brasile e Norvegia, i Ministri dei 24 Paesi hanno cercato un accordo senza successo.
Il problema è rappresentato soprattutto dall’entità dei tagli e dalla quota di produzione delle singole nazioni. Il Ministro del Petrolio dell’Angola, ad un certo punto, ha persino minacciato di lasciare il cartello ed ha abbandonato la discussione.
Fino a che un accordo non sarà raggiunto, possiamo aspettarci nuovi ribassi nel prezzo del petrolio.
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